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I giovani oggi sono penalizzati, ma riceveranno — si dice — oltre 6.400 miliardi di euro nei prossimi vent’anni. Per questo, secondo economisti e opinionisti, bisognerebbe rafforzare il prelievo sui trasferimenti tra generazioni, tassando i patrimoni superiori al milione di euro. Un’idea rilanciata da "The Economist" e ripresa da "La Stampa", che promette un nuovo “ascensore sociale” finanziato con ciò che altri hanno costruito. Tuttavia, siffatta proposta, presentata come saggia e ragionevole, è in realtà un attacco diretto alla libertà, alla responsabilità, alla famiglia e alla proprietà.
Colpire ciò che si trasmette è tassare due volte la stessa ricchezza: una volta quando viene guadagnata; l’altra quando si trasferisce. E farlo in nome dell’eguaglianza non lo rende meno ingiusto. Il lascito non è un privilegio, ma la conseguenza di un diritto fondamentale: quello di disporre liberamente del frutto del proprio lavoro. Se è legittimo educare un figlio, trasmettergli conoscenze e valori, perché non dovrebbe esserlo affidargli anche beni materiali?
Il prelievo successorio agisce nel momento più arbitrario possibile: la morte. Non è un evento economico, bensì un fatto umano, intimo, non ripetibile. Colpire proprio lì, nel passaggio tra generazioni, è un gesto che ha più a che fare con il potere che con la fiscalità. Nessuno può giustificare una tassa su beni frutto di lavoro, tassazione e sacrifici passati. È una sanzione postuma contro chi ha risparmiato invece di consumare, contro chi ha pensato al futuro anziché vivere di sola rendita pubblica.
I beni trasmessi in famiglia non sono una rendita passiva. Un patrimonio, per essere mantenuto, richiede impegno, competenze, capacità di rischio. Il capitale si deteriora, cambia forma, perde valore se non viene curato. Eppure, lo Stato pretende di tassare questo passaggio come se fosse un guadagno certo e garantito. Il risultato? Una doppia ingiustizia. La prima verso chi ha costruito e programmato. La seconda verso chi riceve, punito per il solo fatto di essere erede, familiare, amico, destinatario di ...
Il titolare del Ministero dell’Istruzione e del Merito (MIM) Giuseppe Valditara prova a modificare modalità e obiettivi dell’esame di maturità. A pochi giorni dalla fine degli esami, il titolare del dicastero di Viale Trastevere ha infatti annunciato di voler ripristinare il concetto di prova “di maturità”, abbandonando la denominazione “esame di Stato” considerata troppo formale e o “fredda” per una scuola che vorrebbe puntare - come dichiarato nel corso di una recente intervista - alla «valorizzazione integrale della persona».
La visione di Valditara, condivisa da molti specialisti ancora legati alla grande tradizione umanistica della scuola italiana, va oltre la semplice verifica delle competenze disciplinari, puntando a premettere al concetto di “istruzione” quello più ampio di educazione. In definitiva, la prova che non a caso valuta ragazzi e ragazze che hanno raggiunto la maggiore età, non si deve limitare ad attestare «quanto si è appreso» in termini nozionistici, ma anche e soprattutto «quanto il percorso scolastico ha inciso sulla maturazione complessiva dello studente». Diversamente basterebbero le batterie di test o l’Intelligenza Artificiale…
L’obiettivo è rendere l’esame più coerente con un sistema educativo che sappia rimettere al centro il concetto di “maturità” che, secondo il ministro, è stato «dimenticato dai giovani che sempre più spesso vogliono rimanere adolescenti e dagli adulti che in molti casi sembrano voler tornare all’adolescenza». Per questo la proposta ministeriale anticipata da Valditara si focalizza sulla capacità degli studenti di saper «affrontare le sfide future della vita con responsabilità e autonomia». La scuola pubblica torna insomma, almeno nelle intenzioni di chi incarna l’Istituzione, a dare il suo contributo per scongiurare la sindrome di Peter Pan o, più volgarmente, del bamboccione.
Il colloquio orale rappresenta già oggi l’elemento più vicino alla visione del ministro, avendo l’obiettivo di «accertare il conseguimento del profilo educativo, culturale e professionale di ciascun candidato», arrivando però alla fine del ciclo delle prove scritte, quasi a “ciliegina sulla torta” mentre le sue finalità dovrebbero essere ...