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Robert Francis Prevost è il nuovo Papa della Chiesa cattolica. Il nome scelto è quello di Leone XIV, un nome altisonante, che ricorda altri tempi, ben lontani non solo da quello di Francesco, ma persino da quelli di Ratzinger e Wojtyla.
E tuttavia, non bisogna commettere l’errore grossolano che molti stanno compiendo in certe ore, ossia quello di ritenere Papa Leone come la manifestazione di una rottura e il ripristino di un certo tradizionalismo o conservatorismo nella Chiesa. Il nome Leone evoca, nella mente del sacerdote medio occidentale, formatosi dopo il Concilio Vaticano II, essenzialmente due figure: san Leone Magno, il grande papa che fermò Attila alle porte di Roma, e Leone XIII, il grande papa della Rerum Novarum, la prima grande enciclica sociale.
Pace e giustizia, infatti, sono due dei quattro grandi temi che, verosimilmente, accompagneranno questo Pontificato. Gli altri due grandi temi sono l’unità e la missione. Sì, perché Bergoglio ha lasciato una Chiesa disastrata, piena di scismi latenti (peggiori di quelli visibili), contrasti e dissidi ideologici e teologici, oltre che una situazione di grave crisi economica. I cardinali elettori, inclusi quelli creati da Francesco (forse soprattutto loro, vista la provenienza geografica “periferica”, come si suol dire), hanno vissuto sulla propria pelle gli effetti del centralismo e dell’autoritarismo dell’argentino.
A differenza di Bergoglio, il primo papa statunitense della storia, nonché primo monaco agostiniano, è un uomo mite, gentile, ben disposto all’ascolto. Un uomo che ha sempre mostrato di non amare telecamere e riflettori, contrariamente a quanto siamo stati abituati in questi ultimi dodici anni di protagonismo mediatico, ipertrofia magisteriale e logorrea libraria.
Anche a causa di ciò, poco o nulla si sa su molte posizioni del neoeletto. Certo, è stato un uomo di Curia: dal 2023 al 2025 è stato prefetto del Dicastero per i vescovi, l’organo curiale più importante dopo la Segreteria di Stato e il Dicastero per la Dottrina della fede. Vista anche la sua posizione ...
Il primo sudamericano. Il primo Gesuita. Il primo a chiamarsi Francesco, e chissà se gli seguirà un Francesco II. Ma anche il primo a mettere in discussione – agli occhi dei conservatori e del popolo delle parrocchie – la figura di Dio, indicato come “non cattolico”, il forte avvicinamento e dialogo con l’Islam, l’attenzione continua a favore di accoglienza e migranti in una critica per nulla dolce nei confronti dell’Occidente, specie in tempi di trumpismo. La morte di Papa Francesco completa il processo di desacralizzazione della figura papale che le clamorose dimissioni di Benedetto XVI aveva avviato: il Papa è un uomo, oltre che Vicario di Cristo, e con Francesco l’umano ha preso il sopravvento sul divino.
Sono lontani i tempi in cui, non riuscendo a prendere sonno, il Papa venuto da Sotto il Monte, Giovanni XXIII, si chiedeva: “Chi governa la Chiesa, tu o lo Spirito Santo? E allora, Angelo, va’ a dormire”. La Chiesa di Jorge Mario Bergoglio da Buenos Aires, un padre ragioniere da Portacomaro in provincia di Asti e una madre genovese, è una chiesa più gesuita che di Gesù. Gesuita nel discernere, nell’indicare, nell’abbozzare. E poi? E poi devi discernere tu, lasciarti guidare: perché non benedire le coppie dello stesso sesso? Ma certo: dieci secondi bastano. Un Dio che non è cattolico, la critica ai “cristiani di pasticceria”, quelli cioè che vanno in chiesa ma poi non applicano quello che dovrebbero applicare, l’accoglienza indiscriminata sia pure ricordando che il Catechismo dà agli Stati il diritto di regolare l’immigrazione (ma ricordandolo a denti stretti, un po’ come la modifica al Catechismo con la pena di morte: sì, è lecita ma siccome i tempi sono cambiati allora non lo è più).
Un Papato che è stato sotto il segno dell’accentramento, dell’uomo solo al comando per volontà divina e da lì, per li rami, giù verso tutta la Barca di Pietro e il gregge a lui affidato; insofferente ...