Quella storia d’Italia che dobbiamo tenere presente se vogliamo arrivare al federalismo

· 2 Agosto 2024


Il problema fondamentale di scelta che il nostro Paese sembra non essere in grado di affrontare e risolvere è quello relativo all’assetto istituzionale definitivo: un modello federale o un modello di governo accentrato? Il Paese è profondamente diverso nei suoi territori per storia, per cultura, per tradizioni, per tipologia di attività sviluppate, anche per aspetti puramente legati alle differenze climatiche. L’unità d’Italia, di cui se è celebrato nel corso del 2011 il centocinquantesimo anniversario, ha reso necessaria una sorta di uniformazione dei comportamenti. Lo stesso regime monarchico, fino al referendum attuato per la sua abrogazione, aveva l’obiettivo di mantenere un’unità di intenti all’interno dello Stato.

Va ricordato però che a quell’unione il Paese si presentò con storie diverse: nel suo complesso affondava le radici nel mondo agricolo e nelle sue tradizioni, mentre il rapporto di lavoro che regolava la proprietà era completamente diverso al Nord rispetto al Sud. Questo è un elemento determinante per capire l’evoluzione del capitale sociale al Nord e il suo modello di imprenditorialità diffusa; in particolare si fa riferimento al diverso atteggiamento, alle modalità con cui si regolava il lavoro agricolo. Al Nord la mezzadria dava spazio all’attività individuale, personale e al rischio derivante, al Sud il latifondo e il bracciantato hanno diffuso la cultura della rendita.

La schiavitù della rendita infatti non aiuta la formazione del capitale sociale, né è in grado di indirizzare verso una emancipazione sociale degna di questo nome. L’esempio italiano di Nord e Sud è paradigmatico. Il Nord era coltivato prevalentemente in regime di mezzadria, dove il rapporto tra proprietario e coltivatore voleva che quest’ultimo compartecipasse al risultato del proprio lavoro (che così diventava di tutta la famiglia) in maniera proporzionata ai suoi sforzi, secondo il concetto “più produco più me ne resta“ (ma con il rischio che il poco potesse essere anche zero). Al Sud, al contrario, il regime era semplicemente di bracciantato, dove il coltivatore lavorava per un padrone latifondista (rentier) che ne pretendeva il risultato per intero; il ragionamento conseguente era “qualsiasi risultato i frutti vanno al padrone ed a me resta sempre lo stesso e cioè poco“ (ma magari sufficiente per vivere).

Nei secoli la mentalità del mezzadro si è naturalmente evoluta da piccolo imprenditore agricolo a imprenditore del secondario. Al Sud, invece, chi per generazioni è stato sottoposto alla schiavitù della rendita ha sviluppato una dimensione culturale che lo vuole proteso a emanciparsi diventando a sua volta un piccolo o grande rentier. Per lui la ricchezza non si crea ma è immanente, ovvero legata al godimento di beni o prerogative che rendono (terre, diritti reali quali il passo o l’emungimento ecc.) e si tratta solo si averne una parte. Questa è la sindrome che la gente del Sud ha sviluppato nei secoli e che ancora oggi ne condiziona le scelte. Il lascito di questa cultura si è trasformato non tanto nella filosofia interna ma nelle modalità con cui può essere esercitata – una rendita, un posto fisso, l’assurgere a notabile o politico, occupare un’area di potere all’interno di un consenso locale anche piccolo un parco eolico o fotovoltaico, una concessione, una esattoria ecc. – invece di partecipare in una dimensione creativa e collaborativa al mercato.

La cultura contadina in Italia è la matrice prima e, se si sovrappone il paesaggio rurale italiano dei primi del ‘900 compilato come funzione del tipo di rapporti di coltivazione, si ottiene una ripartizione geografica identica a quella dell’associazionismo, del volontariato, del credito cooperativo, di cui si era fatto cenno in un precedente lavoro del sottoscritto (La collaborazione competitiva, Bocconi , 2011). La cultura e il comportamento di un popolo sono sempre il risultato di storie millenarie.
Alla fine della guerra la formazione repubblicana del Paese, con storie diverse, viene consacrata con l’enunciato costituzionale in cui si affermano i principi sostanziali e si riconosce la composizione di un governo rispettoso delle autonomie locali che, nelle regioni del Nord, hanno fatto la storia di quei territori. Il boom economico del dopoguerra ha favorito una crescita tumultuosa da una situazione di tragica povertà a un più diffuso benessere; mentre l’operosità del Nord si fondava su un tessuto artigianale di piccole e medie imprese derivante da una cultura agricola che aveva già sperimentato questo sviluppo, il Sud scontava una storia che non aveva fatto crescere in pari modo un’imprenditorialità diffusa, come sopra evidenziato nel mondo agricolo. La ricchezza creata nei territori del Nord consentiva di ridurre la distanza tra le aree del Paese attraverso una politica di trasferimenti e di investimenti industriali con un modello, poi definito delle “cattedrali nel deserto”, destinato a fallire perché non coerente con la storia millenaria di quei territori; infatti avrebbe continuato a perpetuare il modello culturale del latifondo e del bracciantato con tutte le sue conseguenze, che vediamo ancora adesso. La sfida di trasformare una collettività con tradizioni culturali agricole in una collettività di operai industriali era una sfida, persa, contro la storia e la tradizione. Così si faranno impianti siderurgici, tipici dell’alta Slesia, sulla costa calabra in riva al mare distruggendo una famosa piana degli ulivi (Gioia Tauro); si farà uno stabilimento automobilistico su una delle più belle spiagge della Sicilia (Termini Imerese) come si sarebbe potuto fare a Stoccarda ma vicina invece alla valle d’oro, così chiamata per la ricchezza dei suoi agrumi; si costruirà un’acciaieria a Brindisi, di fronte allo stupendo mare pugliese di cui vediamo oggi la situazione di default. Si è preteso di trasformare una millenaria cultura agricola in una metallurgica nel giro di una generazione: i risultati si vedono.

L’errore più grave nel tentativo di sviluppare l’industria nel Sud è dipeso proprio dall’idea di trasferire – tout court – i modelli delle grandi imprese del Nord come fattore di sviluppo trainante dell’economia locale. Quel modello però era contrario alla cultura millenaria di quei territori e così, invece di assecondare la qualità e le specificità locali legate alla terra e alle sue tradizioni, emancipandoli dall’idea della cultura della “rendita “, si è voluto “mettere il vino nuovo nelle botti vecchie”: e il vino nuovo puntualmente ha sfasciato le botti vecchie facendo ritorno a un passato che bisognava aspettare.

La rottura con una cultura millenaria che si è trovata precipitata in una storia che non conosceva e non aveva il tempo per conoscere, anziché fare crescere quella società, incentivando l’autonomia necessaria per non dipendere indefinitamente dall’aiuto pubblico che prolungava la cultura del latifondo, le ha rese perennemente dipendenti dall’aiuto di una classe politica – i nuovi latifondisti – che si è trovata in mano un potere ricattatorio nei confronti di un elettorato sempre più incapace di esprimere liberamente il proprio pensiero. Il sistema delle relazioni sociali si è disgregato perché, diventando sempre più frammentato, ha favorito il potere di pochi e una crescente disuguaglianza, nonostante gli aumentati trasferimenti. La mancanza di una reale democrazia ha favorito il formarsi di relazioni tossiche tra politica, economia e associazioni criminali che sono diventate, a loro modo, una forma di aggregazione sociale (e ha ridotto la possibilità di una forma di sviluppo economico simile al Nord, non nelle infrastrutture ma nello spirito che ha animato i piccoli e medi imprenditori e che li ha spinti ad affrontare il nuovo con il rischio e con una creatività millenaria che distingue il nostro popolo da tutti gli altri al mondo).

Queste riflessioni sono oggi importanti per capire il senso di un cambiamento proposto legislativamente ma come sempre ostacolato da interessi che nulla hanno a che vedere con la storia ed i suoi modelli di sviluppo. La “Storia” insegna che la resistenza al cambiamento è una sfida difficile perché mette in discussione credenze, comportamenti, relazioni e modelli socioculturali di fronte alla paura di cambiare; ma solo una profonda riflessione fuori da schemi standardizzati può aiutarci ad affrontare un futuro con creatività e innovazione.


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