Il processo Salvini è un’offesa alla ragione e alla libertà: difendere i confini tutela tutti

· 18 Settembre 2024


Sui social gira un meme tanto semplice quanto efficace. Esso dice: “Ho chiesto io a Salvini di bloccare lo sbarco dei clandestini. L’ho fatto il 4 marzo 2018 con una matita. Si chiama voto!”. Fra l’altro, quel che gli elettori chiedevano ai politici chiamati a rappresentarli, allora come oggi, non era che si infrangesse una legge (nel qual caso la loro richiesta sarebbe stata “eversiva”), ma che la si rispettasse. In particolare, quella legge che prevede che in uno Stato si entri seguendo certe procedure, da “regolari” e non da clandestini. La legge prevede certo che si dia esilio ai “rifugiati politici”, ma di quelli in verità sulle imbarcazioni di fortuna che solcano il Mediterraneo se ne vedono ben pochi. Salvini non ha fatto che mettere in atto quello che politicamente ha ritenuto lo strumento più efficace per rendere effettiva la richiesta di legalità proveniente dal corpo elettorale.

A ben vedere, però, non è solo il principio democratico a essere inficiato nella decisione dei giudici di Palermo di intervenire con mano pesante sul vicepremier. A essere calpestato è anche il principio liberale. Lo Stato, compreso quello di diritto, per difendere se stesso, cioè il perimetro di gioco in cui vivono e agiscono i propri cittadini, non può far entrare chiunque in nome di una accoglienza senza se e senza ma che ne destrutturerebbe in poco tempo le fondamenta. L’uomo di Stato, nel difendere i confini della propria nazione, come ha fatto Salvini, difende i propri cittadini, certo, ma anche, in ultima analisi, i disperati che vogliono arrivare senza permesso in Europa. A costoro, infatti, il nostro continente è stato presentato come luogo di prosperità e ricchezza, in cui è facile entrare con sotterfugi e non seguendo le vie legali e poi vivere senza problemi. Nessuno ha detto loro come stanno effettivamente le cose e cioè che, una volta entrati nel nostro Paese, il loro destino di marginalità li porterà quasi sempre a vivere di stenti o addirittura a delinquere. Si instillerà, soprattutto nelle periferie urbane ed extra-urbane delle nostre società, un gioco non a somma zero in cui perderanno loro e anche gli autoctoni. Di questa situazione chi lucra alle loro spalle non mette certo al corrente i poveri disgraziati. Così come non li mette al corrente dello scontro inevitabile di mentalità, culture, modi di essere e comportarsi, a cui la loro presenza metterà necessariamente capo.

Il politico ha il dovere di difendere, con i confini dello Stato, i propri cittadini e la civiltà del proprio Paese. Egli, diceva Max Weber, non deve seguire l’etica della convinzione, ma quella della responsabilità: deve, detto in soldoni, badare alle conseguenze delle sue azioni. È in questo cerchio, a ben vedere, che si svolge, in piena autonomia, l’attività della politica, che è un principio cardine delle società moderne o liberali. Politica che, nel caso specifico, ha il diritto, anzi il dovere, di mettere in campo tutte le possibili attività di dissuasione.

In questo contesto tutto e necessariamente politico si è mosso Salvini, che non ha sequestrato nessuno ma ha solo chiesto alle autorità di tenere in stato di fermo momentaneo, e in attesa di una decisione, chi stava per entrare in Italia illegalmente. Intervenire su questa decisione con motivazioni extrapolitiche, come ha fatto la procura di Palermo, rappresenta un grave vulnus alla politica, alla democrazia e in ultima analisi allo stesso diritto. Un ulteriore passo verso quella spoliticizzazione delle nostre esistenze che non potrà che condurci dritti verso il baratro. Che poi sia stata la stessa (cattiva) politica a castrarsi, con la concessione dell’autorizzazione a procedere, è un altro, non secondario aspetto, della situazione tragica in cui siamo precipitati.


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