Niente giustizia per l’agente che salvò Falcone

· 17 Febbraio 2025


In questa puntata di “Auto da fé” Giulio Cainarca discute con Felice Manti, caporedattore centrale de Il Giornale e scrittore, della sentenza della Cassazione che ha assolto il boss Antonino Madonia per l’omicidio, nel 1989, della moglie del poliziotto Nino Agostino, vicino a Giovanni Falcone, rimandandolo a processo invece per la morte del poliziotto nel medesimo agguato. La Procura generale della Cassazione aveva chiesto la conferma della condanna all’ergastolo per il boss; l’omicidio della moglie Ida Castelluccio rimarrà senza un colpevole visto che il reato di Madonia è andato in prescrizione.

Manti lo definisce un pessimo (semi)epilogo giudiziario della bruttissima storia del poliziotto Nino Agostino, ucciso assieme alla moglie Ida Castelluccio (incinta di cinque mesi e sua sposa da uno) il 5 agosto 1989 a Villagrazia di Carini. Non ci sarebbe la premeditazione di Madonia, boss di Resuttana, di uccidere anche la Castelluccio, per cui il reato per la morte di lei è prescritto: sarebbe stata la prima condanna definitiva per un omicidio commesso più di 35 anni fa.

Agostino stava indagando sul fallito attentato dell’Addaura contro Giovanni Falcone: qualche giorno prima di morire, il 21 giugno, trovò un borsone con cinquantotto candelotti di tritolo sulla spiaggia vicino alla villa del giudice ammazzato a Capaci nel 1992. Ai funerali di Agostino, Falcone, davanti alla bara assieme a Paolo Borsellino, disse ad un commissario di polizia: «A quel ragazzo devo la vita»: uno degli autori del fallito attentato orchestrato da Madonia disse che buttò via il telecomando perché aveva visto Agostino e si era spaventato.

L’agente Agostino andava spesso in moto a caccia di latitanti assieme a un altro sbirro, Emanuele Piazza, scomparso nel 1990 e di cui non si è mai trovato il corpo. Che dietro l’attentato ci fossero i servizi segreti «deviati» era convinto il padre di Agostino, Vincenzo, che dalla morte del figlio non si è mai più tagliato la barba in segno di protesta.

“Diversi sono gli esponenti istituzionali cui può addebitarsi di avere scientemente o per negligenza ritardato o fuorviato lo sviluppo delle indagini, con silenzi, omissioni, reticenze o addirittura interventi di manipolazione o soppressione delle fonti di prova”. Non usa giri di parole il presidente della Corte d’Assise d’Appello di Palermo, Angelo Pellino nelle motivazioni con le quali i giudici della Corte hanno confermato l’ergastolo al boss Nino Madonia per l’omicidio del poliziotto Nino Agostino e della moglie incinta Ida Castelluccio.

“È convincimento di questa Corte” che Agostino fu ucciso “a causa dell’impegno profuso nel suo lavoro, e più precisamente nell’attività investigativa mirata alla cattura di importanti latitanti mafiosi che egli stava svolgendo, al di fuori delle sue mansioni ufficiali e compiti di istituto”.

Uno dei punti nevralgici individuato da Agostino era costituito da quel Vicolo Pipitone che allora rappresentava il centro catalizzatore del “mandamento” di Resuttana, luogo di summit e affari, ma anche il luogo in cui i Madonia “intrattenevano rapporti con esponenti dei Servizi di sicurezza (da Contrada a La Barbera sino a Giovanni Aiello, ovvero l’agente che passò alla storia con il soprannome di “Faccia di Mostro”)”. Vicolo Pipitone era il cuore nevralgico della holding del mandamento mafioso dei Galatolo e dei Madonia; era “precipuo interesse di Cosa nostra”, scrivono i giudici d’appello, e segnatamente dei Madonia, “eliminare un poliziotto rivelatosi un ficcanaso”, che “andava curiosando” nel cuore del loro territorio in un periodo in cui Vicolo Pipitone era teatro, tra l’altro, di “incontri riservati con esponenti delle istituzioni e quindi poteva rappresentare una minaccia per la sicurezza e l’impunità delle attività illecite della locale cosca mafiosa, anche sotto il profilo di una proficua e sicura perpetuazione di quei contatti che rappresentavano per il sodalizio mafioso capeggiato dai Madonia, una risorsa strategica di assoluto rilievo”.

L’avvocato difensore della famiglia Agostino, Fabio Repici, ha chiesto a lungo alla Procura di Caltanissetta di indagare sul ruolo dell’ex poliziotto Giovanni Aiello, «Faccia di Mostro», presente all’Addaura secondo alcuni testi. Per tutta risposta Repici si è beccato una calunnia da tre magistrati, in servizio all’epoca: Gabriele Paci, Stefano Luciani e Lia Sava. Perché a suo dire i pm avrebbero deciso di «assolvere» da morto Aiello, negando legami con mafia e 007, con un memoriale da quasi 300 pagine pur di «sabotare» – «con mistificazioni, omissioni e imprecisioni» secondo Repici – il processo a un altro boss accusato di essere tra i mandanti della morte di Agostino, vale a dire Gaetano Scotto, condannato all’ergastolo (sentenza non definitiva) a fine 2024

La Procura di Catania, competente per i procedimenti riguardanti i magistrati nisseni, aveva inizialmente richiesto l’archiviazione. Tuttavia, il giudice Luca Lorenzetti ha respinto la richiesta, disponendo l’imputazione coatta; il sospettato, Giovanni Aiello, alias “Faccia da mostro”, ex poliziotto legato agli ambienti dei servizi segreti, la cui ombra è presente dietro numerosi casi irrisolti, era morto nel 2017, durante le indagini avocate dalla Procura generale di Palermo guidata al tempo da Roberto Scarpinato. Sette mesi dopo il suo decesso, la Procura di Caltanissetta aveva chiesto l’archiviazione delle indagini su Aiello. Al posto di applicare un’archiviazione conforme all’articolo 150 del codice penale (per morte del reo), i pm di Caltanissetta avevano prodotto un documento di ben 284 pagine che Repici ha definito “abusivo e doloso”.


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