Viviamo in un’epoca in cui il capitalismo è sotto assedio, con governi sempre più interventisti che propongono tasse elevate e regolamentazioni asfissianti, politici e sindacati che invocano ulteriori misure dirigiste, che limitano la concorrenza e ostacolano la crescita economica, e altre che invadono perfino i delicati campi dell’etica e della morale, e intellettuali e opinion leader che demonizzano il libero mercato e la globalizzazione.
Si tratta di un’opposizione che non ha alcun fondamento scientifico né è ancorata a una critica razionale. È infatti unicamente dettata da pregiudizi radicati e dalla volontà di limitare la libertà economica in nome di una presunta giustizia sociale, come ha messo chiaramente in luce Ludwig von Mises nel saggio del 1956 “La mentalità anti-capitalista”, nel quale ha offerto una chiave di lettura illuminante, smascherando con lucidità le vere radici dell’indicato pregiudizio.
Il capitalismo, come ha osservato, ha trasformato il mondo in modi impensabili, portando prosperità e migliorando le condizioni di vita della maggioranza. Nonostante ciò, molti di coloro che godono di detti benefici spesso si schierano contro il sistema che li ha resi possibili, vittime di un paradosso che lo scienziato sociale austriaco ha definito mentalità anti-capitalista. È un atteggiamento che non nasce da una comprensione razionale dell’economia, bensì da un intreccio di invidia sociale, risentimento e fallacie ideologiche, spesso legate al desiderio di potere.
Oltre alla crescita economica, il capitalismo ha altresì permesso e rafforzato la sovranità del consumatore, dando a ciascun individuo il potere di determinare il successo o il fallimento delle imprese attraverso le proprie scelte di acquisto. «Il meccanismo del profitto – ha ancora rilevato lo studioso – rende prosperi quegli uomini che hanno successo nel fornire ciò che le persone vogliono nel modo più efficiente ed economico possibile». Eppure, il libero mercato è spesso criticato da intellettuali e lavoratori dipendenti, i quali vi vedono una minaccia che svela le loro inefficienze e incapacità.
Secondo Mises, l’uomo moderno non si accontenta di migliorare la propria condizione: egli vuole uguaglianza, ma non nella libertà, bensì nei risultati. Così, mentre il sistema capitalistico eleva la massa alla condizione di borghesi, il sentimento di frustrazione cresce: chiunque non ottenga il successo desiderato, invece di accettare le proprie responsabilità, attribuisce il proprio fallimento a una presunta ingiustizia del citato sistema. «Ciò che rende un uomo più o meno facoltoso – ha pure mostrato il medesimo economista – non è la valutazione del suo contributo verso ogni “assoluto” principio di giustizia, ma la valutazione dei propri simili applicata esclusivamente secondo parametri riferiti ai loro stessi interessi, desideri e fini».
L’anti-capitalismo, come ribadito nel libro, è quindi una razionalizzazione di risentimenti personali. Ciò è evidente, ad esempio, tra molti intellettuali, i quali odiano il capitalismo perché ha assegnato ad altri il successo che loro desideravano: «Loro detestano il capitalismo perché ha assegnato a questi altri uomini la posizione a cui loro ambivano». Non a caso, proprio coloro che si vantano di voler difendere i deboli finiscono per sostenere sistemi economici che, invece, li impoveriscono.
Oggi il dibattito sull’anti-capitalismo è più acceso che mai e si manifesta in molte forme, dalle derive ideologiche del movimento woke alle teorie sulla giustizia sociale, dalle politiche “green” dell’UE agli attacchi alla proprietà privata, come, per esempio, la guerra agli affitti brevi.
Se da un lato dette tendenze minano i principi della meritocrazia e dell’iniziativa individuale, dall’altro, guardate in controluce, celano spesso l’invidia sociale e il tentativo di livellare artificialmente le differenze tra gli individui, con la retorica della redistribuzione “equa” della ricchezza, che ignora deliberatamente un principio fondamentale: il mercato è il più grande motore di progresso, poiché libera le energie produttive e premia chi meglio soddisfa le esigenze dei consumatori.
A parte ciò, trascura altresì che nessun sistema è perfetto e che la storia ha nondimeno dimostrato che solo l’economia di mercato ha potuto garantire un progresso continuo, innalzando il tenore di vita e favorendo l’innovazione. Al contrario, dove il mercato è stato ostacolato da vincoli e regolamentazioni asfissianti, la produttività è declinata e la società si è impoverita. L’alternativa al capitalismo non è pertanto una società più equa o prospera, ma il dominio della burocrazia, che soffoca l’inventiva, frena la crescita e rafforza il potere di ristrette élite politiche.
Tutte cose, in definitiva, che sono state lucidamente analizzate da Mises, il quale ha sottolineato come il progresso economico non nasca dalla pianificazione centralizzata, ma dalla libera interazione tra individui che innovano, investono e creano valore. Sostituire la logica del mercato con il dirigismo statale significa pertanto ridurre l’efficienza, limitare le opportunità e impoverire la società anziché migliorarla.
Viaggio nelle ideologie farlocche che odiano il capitalismo ma ne sfruttano i benefici
Sandro Scoppa · 23 Febbraio 2025
Viviamo in un’epoca in cui il capitalismo è sotto assedio, con governi sempre più interventisti che propongono tasse elevate e regolamentazioni asfissianti, politici e sindacati che invocano ulteriori misure dirigiste, che limitano la concorrenza e ostacolano la crescita economica, e altre che invadono perfino i delicati campi dell’etica e della morale, e intellettuali e opinion leader che demonizzano il libero mercato e la globalizzazione.
Si tratta di un’opposizione che non ha alcun fondamento scientifico né è ancorata a una critica razionale. È infatti unicamente dettata da pregiudizi radicati e dalla volontà di limitare la libertà economica in nome di una presunta giustizia sociale, come ha messo chiaramente in luce Ludwig von Mises nel saggio del 1956 “La mentalità anti-capitalista”, nel quale ha offerto una chiave di lettura illuminante, smascherando con lucidità le vere radici dell’indicato pregiudizio.
Il capitalismo, come ha osservato, ha trasformato il mondo in modi impensabili, portando prosperità e migliorando le condizioni di vita della maggioranza. Nonostante ciò, molti di coloro che godono di detti benefici spesso si schierano contro il sistema che li ha resi possibili, vittime di un paradosso che lo scienziato sociale austriaco ha definito mentalità anti-capitalista. È un atteggiamento che non nasce da una comprensione razionale dell’economia, bensì da un intreccio di invidia sociale, risentimento e fallacie ideologiche, spesso legate al desiderio di potere.
Oltre alla crescita economica, il capitalismo ha altresì permesso e rafforzato la sovranità del consumatore, dando a ciascun individuo il potere di determinare il successo o il fallimento delle imprese attraverso le proprie scelte di acquisto. «Il meccanismo del profitto – ha ancora rilevato lo studioso – rende prosperi quegli uomini che hanno successo nel fornire ciò che le persone vogliono nel modo più efficiente ed economico possibile». Eppure, il libero mercato è spesso criticato da intellettuali e lavoratori dipendenti, i quali vi vedono una minaccia che svela le loro inefficienze e incapacità.
Secondo Mises, l’uomo moderno non si accontenta di migliorare la propria condizione: egli vuole uguaglianza, ma non nella libertà, bensì nei risultati. Così, mentre il sistema capitalistico eleva la massa alla condizione di borghesi, il sentimento di frustrazione cresce: chiunque non ottenga il successo desiderato, invece di accettare le proprie responsabilità, attribuisce il proprio fallimento a una presunta ingiustizia del citato sistema. «Ciò che rende un uomo più o meno facoltoso – ha pure mostrato il medesimo economista – non è la valutazione del suo contributo verso ogni “assoluto” principio di giustizia, ma la valutazione dei propri simili applicata esclusivamente secondo parametri riferiti ai loro stessi interessi, desideri e fini».
L’anti-capitalismo, come ribadito nel libro, è quindi una razionalizzazione di risentimenti personali. Ciò è evidente, ad esempio, tra molti intellettuali, i quali odiano il capitalismo perché ha assegnato ad altri il successo che loro desideravano: «Loro detestano il capitalismo perché ha assegnato a questi altri uomini la posizione a cui loro ambivano». Non a caso, proprio coloro che si vantano di voler difendere i deboli finiscono per sostenere sistemi economici che, invece, li impoveriscono.
Oggi il dibattito sull’anti-capitalismo è più acceso che mai e si manifesta in molte forme, dalle derive ideologiche del movimento woke alle teorie sulla giustizia sociale, dalle politiche “green” dell’UE agli attacchi alla proprietà privata, come, per esempio, la guerra agli affitti brevi.
Se da un lato dette tendenze minano i principi della meritocrazia e dell’iniziativa individuale, dall’altro, guardate in controluce, celano spesso l’invidia sociale e il tentativo di livellare artificialmente le differenze tra gli individui, con la retorica della redistribuzione “equa” della ricchezza, che ignora deliberatamente un principio fondamentale: il mercato è il più grande motore di progresso, poiché libera le energie produttive e premia chi meglio soddisfa le esigenze dei consumatori.
A parte ciò, trascura altresì che nessun sistema è perfetto e che la storia ha nondimeno dimostrato che solo l’economia di mercato ha potuto garantire un progresso continuo, innalzando il tenore di vita e favorendo l’innovazione. Al contrario, dove il mercato è stato ostacolato da vincoli e regolamentazioni asfissianti, la produttività è declinata e la società si è impoverita. L’alternativa al capitalismo non è pertanto una società più equa o prospera, ma il dominio della burocrazia, che soffoca l’inventiva, frena la crescita e rafforza il potere di ristrette élite politiche.
Tutte cose, in definitiva, che sono state lucidamente analizzate da Mises, il quale ha sottolineato come il progresso economico non nasca dalla pianificazione centralizzata, ma dalla libera interazione tra individui che innovano, investono e creano valore. Sostituire la logica del mercato con il dirigismo statale significa pertanto ridurre l’efficienza, limitare le opportunità e impoverire la società anziché migliorarla.
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Sandro Scoppa
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